COhousing CHIARAVALLE è il recupero in classe A di un’affascinante cascina del ‘600, a Milano, a pochi passi dalla bellissima Abbazia di Chiaravalle. Qui la collaborazione tra vicini e tanti spazi e servizi a disposizione di tutti, diventano la soluzione per vivere in modo più semplice, armonioso e conveniente: il progetto è in stato di avanzamento e abbiamo chiesto al dott. agronomo Marco Fabbri, responsabile della distribuzione del verde negli spazi comuni, cosa lo rende davvero speciale.
1. Dottor Marco Fabbri, Lei ha diretto numerosi progetti volti a migliorare la qualità del verde nelle aree urbane. Ci può dire qual è l’attività di cui è più orgoglioso?
Mi tornano in mente alcuni progetti di piccoli giardini privati studiati intorno a edifici di abitazione di un grande architetto. Si era alla fine degli anni ’80 e i giardini nascevano con un tema, quasi sempre ispirato dall’architettura. L’architettura di qualità – quella capace di emozionare – rafforza il contenuto degli spazi che la circondano. Così sono nati giardini tematici. Ricordo “Baccelli e farfalle”, giocato su alcune specie appartenenti alla famiglia botanica delle Leguminosae – oggi dovremmo dire Fabaceae – caratterizzate dalla forma del fiore “papilionaceo” e su specie da fiore che richiamano o attirano le farfalle.
“Simmetrie e diagonali” era un giardino – poco più di un cortile – di un palazzo vicino alla Stazione Centrale di Milano, sopra le autorimesse sotterranee. Con poco spazio il giardino era visibile per lo più dall’alto. Così, sapendo di come Kandinsky dipingeva nella fase astrattista della sua vita, mi sono ispirato a lui e ho inventato qualcosa che gioca con i colori, con le piante e soprattutto con i materiali di copertura del terreno, che non sono meno importanti dei vegetali.
Anche le canzoni si prestano a ispirare i giardini: “Onda su onda” era il titolo di un giardino fatto da strisce sinusoidali composte da specie diverse di tappezzanti e fiori: in un terreno stretto e lungo si doveva movimentare lo spazio e non c’era posto per i grandi alberi.
In definitiva si tratta di dare un senso a ciò che si fa, anche per uscire dalla banalità delle proposte “fai da te” e dalla pochezza delle specie in commercio, alla ricerca di qualcosa di più originale.
2. Lei è anche insegnante in diversi corsi di livello universitario. Quali sono i valori più importanti da trasmettere ai giovani che intendono diventare dottori agronomi?
Faccio fatica a individuare gli insegnamenti, soprattutto perché la figura del dottore agronomo è talmente ampia che si può studiare in tanti campi diversi e specializzarsi oppure orientarsi a una figura generalista, ma che presto dovrà scegliere e dirigere i propri interessi verso uno o pochi rami della professione.
Se penso agli insegnamenti che ho seguito e ancora ricordo in buona parte, l’agronomia è fondamentale, ma anche le industrie agrarie lo sono, così come le materie economiche, utili in ogni campo professionale. Sarà perché insegno economia ambientale ma l’approccio delle scienze sociali è un po’ diverso da quello delle materie biologiche e tecniche dove il determinismo e la “scientificità” sono il porto sicuro cui rivolgersi sempre. In economia abbiamo a che fare con le relazioni dell’uomo, con i comportamenti, con la percezione, con le attese per il futuro, tutti aspetti della vita che parlano dell’uomo.
Resto del parere che le più importanti siano sempre le basi, dalle scuole elementari alle superiori, se sono ben impostate e se i primi anni di università danno le ulteriori conoscenze nelle materie fondamentali, allora si può andare dappertutto. Sulle buone fondamenta si costruiscono case che resistono nel tempo. Ci sono materie di contesto che si imparano strada facendo, ma che l’università a volte inserisce nei corsi di laurea. Ad esempio, io insegno anche “cultura e pratica professionale”, qualcosa di metodologico che è trasversale per molti corsi di laurea e si riferisce a come affrontare le attività e le persone, a come rapportarsi agli enti e alle istituzioni pubbliche, tutte cose che si imparano lavorando ma che, se riusciamo ad anticipare all’università, ci permettono di precorrere i tempi, di essere più competitivi, di agire con più qualità, di fare meno errori.
3. Lei ha scritto diverse pubblicazioni inerenti la pianificazione territoriale del verde e del paesaggio. Quali sono le regole da seguire in questo ambito?
Anche se il paesaggio è fatto dall’uomo per l’uomo, la presenza dalla natura è quasi sempre essenziale, perciò pianificare e progettare il paesaggio significa guidare le modifiche che l’uomo opera nell’ambiente con uno sguardo diretto agli effetti di queste trasformazioni sulle forme dei luoghi e sulle loro componenti naturali.
L’operato di chi pianifica e progetta può adottare due strategie, per semplificare, opposte: ispirarsi ai luoghi e adattarsi a questi, agendo per sottrazione dove la natura è fervida e selvaggia, oppure imporre il nostro disegno, le nostre regole, modificando forme e assetti a nostro piacimento, trasformando persino la percezione dei luoghi, introducendo effetti di “straniamento” capaci di farci sentire altrove.
Tra questi due opposti c’è un’intera gamma di modi di agire, dipende da cosa si vuole ottenere e nessuno è preferibile agli altri. Il primo modo è quello di chi vuole un dialogo con la natura, è l’approccio ecologico come di chi coltiva la natura prelevando da questa ciò di cui ha bisogno senza ridurne le potenzialità produttive future. Il secondo è quello di chi vuole lasciare il proprio segno, di chi ama l’ordine e vorrebbe che anche la natura seguisse il proprio disegno mentale.
Alcuni paesaggi fortemente costruiti e organizzati sono altrettanto pregevoli e graditi di luoghi lasciati a se stessi con interventi dell’uomo in punta di fioretto. Al contrario, non sempre la natura lasciata a se stessa è capace di produrre qualcosa di pregevole ai nostri occhi – in base alle nostre interpretazioni culturali –, d’altra parte la natura che conosciamo non è mai una natura originaria perché da millenni è sempre stata guidata dalla mano dell’uomo con intensità più o meno determinante.
Forse l’unica vera regola è che si deve essere in grado di spiegare ciò che si fa, le ragioni delle scelte, la coerenza di queste con gli obiettivi che ci si è prefissi: l’importante è il processo, il metodo di lavoro e il modo in cui gli altri percepiscono il nostro intento e i nostri risultati.
4. Come verrà distribuito il verde negli spazi comuni di COhousing CHIARAVALLE? Ci saranno, ad esempio, orti e frutteti?
L’organizzazione dello spazio è vagamente ispirata allo schema medioevale per cui in un territorio intorno al nucleo abitato le attività agricole sono disposte in modo che quelle a più intensità di lavoro siano più vicine: nell’ordine ci saranno quindi orti, colture orticole di pieno campo, fruttiferi, cereali, pascoli e boschi. Qui abbiamo proposto anche un roseto, una sorta di luogo di passaggio tra il complesso abitato e la parte destinata alla comunità e ai giochi dei bimbi e dei ragazzi.
Il frutteto non ha le pretese di un frutteto industriale, fitto e organizzato con tutori e fili per legare i rami. Abbiamo pensato a un frutteto libero: una maglia quadrata dove ogni pianta occuperà un nodo. Qua e là le piante potranno essere di dimensioni diverse secondo specie e varietà e in qualche punto si lascerà uno spazio vuoto così da formare una radura; insomma, sarà uno spazio in cui stare a contatto con la natura.
L’orto è tradizionale, suddiviso in parcelle di circa un metro di larghezza cosicché le piante siano facilmente raggiungibili, con passaggi ogni due file e attraversamenti trasversali. Ciascuno deve poter passare accanto alle piante dei vicini, imparare da questi, scambiarsi i consigli di coltivazione, gareggiare per i prodotti migliori, più belli, più saporiti, ci sono tanti modi per competere con la natura.
6. Quali sono, secondo Lei, le caratteristiche del progetto COhousing CHIARAVALLE che lo rendono un esempio da seguire per altre iniziative di cohousing?
A Chiaravalle, poco più in là dell’Abbazia, si doveva rispettare il vincolo paesaggistico e monumentale perciò il primo impegno è stato quello di recuperare alcune idee di come erano organizzati gli spazi di relazione attorno alle cascine, le funzioni, la vegetazione. Naturalmente i tempi cambiano e i modi di vita – per fortuna – non sono più quelli di allora quando il lavoro era durissimo e a volte mancava anche l’essenziale.
Nonostante i vincoli del progetto, abbiamo ancora ampi margini di scelta e la progettazione esecutiva potrebbe prevedere un coinvolgimento diretto dei residenti, delle famiglie che andranno ad abitare là. Potrebbe essere anche un esempio metodologico di come arrivare a un progetto esecutivo parlando con la gente costruendolo un po’ anche con loro, scegliendo piante e materiali con loro; anche perché molte – quasi tutte – le scelte progettuali si traducono in oneri di gestione futura che possono essere molto diversi a seconda del progetto.
In effetti, oggi abbiamo sviluppato il progetto definitivo che è vincolante solo per i caratteri generali dell’assetto e degli elementi paesaggistici, concordati sia con la Soprintendenza per i beni ambientali e paesaggistici sia con il Parco agricolo Sud Milano, mentre la traduzione operativa di ogni elemento richiede un approfondimento e un dimensionamento cui possono partecipare i futuri abitanti: questi potrebbero partecipare alle scelte, frequentando orti botanici o vivai potrebbero rendersi conto delle specie di quanto spazio hanno bisogno, di come crescono, fioriscono o fruttificano, dell’epoca in cui esprimono i migliori caratteri ornamentali, della produttività delle specie orticole e frutticole. In questo modo il verde ornamentale e produttivo rispecchierebbe la loro idea di giardino, di orto o frutteto.
Anche Greenseevice.it, in collaborazione con Ecospheris, realizza orti condominiali, ma anche altre soluzioni quali giardini pensili e verde verticale: tutto ciò che serve per rendere più green le nostre città!
Feed Rss Commenti